Bambini Soldato del Nord Uganda: disegni di guerra, di speranza, di pace

con reportage di Monica Maggioni

Istituto Tecnico Industriale “J.F. Kennedy”, via Interna Pordenone
dal 28.11.2007 al 6.12.2007
Orari di visita : dalle 9.00 alle 13.00 dal lunedì al sabato

Incontro con il dott. Alberto Reggiori, medico-chirurgo, volontario AVSI in Uganda
15 dicembre 2007

Quando una singola persona capisce di essere stata chiamata per un destino buono, il suo “io” comincia a muoversi e ad abbracciare tutta la realtà, diventando protagonista dello sviluppo e del cambiamento di se stessi e delle persone più vicine.

La peculiarità propria di AVSI – una organizzazione non governativa fra le centinaia che esistono in Italia, fra le migliaia che operano in tutto il mondo – è quella di mettere al centro di qualsiasi progetto l’incontro con la persona, valorizzando la sua comunità, la sua storia, ciò che è stato costruito nel suo ambiente. I volontari di AVSI (Associazione Volontari per il Servizio Internazionale, ora Fondazione) sono medici, architetti, ingegneri, operai, professionisti che hanno trovato la realizzazione della propria vita, oltre che nella famiglia o nella propria professione, anche nell’impegno a favore di popolazioni e comunità dove si è manifestato un bisogno urgente.
Uno di questi, Alberto Reggiori, medico-chirurgo, ora coordinatore operativo dell’Ospedale di Cittiglio (Varese) e padre di 7 figli, per 11 anni in volontario in Uganda, ha accettato di venire a Pordenone per raccontare la sua esperienza a più di trecento ragazzi dell’ITC Kennedy e dei Licei Grigoletti e Leopardi-Majorana. Si è così conclusa la prima fase di un progetto di educazione alla solidarietà, promosso dal Centro culturale “Augusto Del Noce” e da alcuni docenti delle tre scuole cittadine, che ha visto tra l’altro l’allestimento di una mostra sui disegni dei bambini-soldato del Nord Uganda, nei locali dell’ITC Kennedy.

Gli allievi sono rimasti scossi innanzitutto dalla semplicità della persona di Alberto Reggiori, oltre che dalla sua ricchezza umana e dalle cose che ha raccontato.
La situazione che ha trovato in Uganda nel 1985 non era diversa da quella di tante realtà africane: un ospedale fatiscente, dei medici che un giorno venivano e un altro no, delle condizioni di lavoro quasi impossibili, il personale infermieristico poco qualificato e quasi senza voglia di lavorare. Ma, insieme ad altri amici che hanno iniziato prima di lui, il dott. Reggiori non si è lasciato scoraggiare da tutto questo. Hanno cominciato a lavorare con la gente che c’era: si trattava di ristrutturare dei locali, rifare l’impianto elettrico, attrezzare la sala operatoria, trovare aiuti. Ma l’attività più decisiva era quella di ricostruire un tessuto di rapporti umani che potesse riportare le persone alla coscienza della propria dignità. Un’amicizia che aiutasse le persone a tornare ad occuparsi con entusiasmo del proprio lavoro, di ciò che restava della propria famiglia, dei propri amici, cominciando pian piano a diventare provocazione a se stessi e agli altri nella ricostruzione del proprio “io”.

L’altra grande cosa che ha colpito è stata la storia del recupero dei bambini-soldato. I guerriglieri del Nord Uganda, fino alla tregua iniziata due anni fa (ma accade ancora in Sierra Leone e in altri paesi come il Sudan), adottavano un metodo di reclutamento crudele e disumano: di notte rapivano i bambini dai villaggi e li portavano nei campi di addestramento alla guerra. Qui essi imparavano a uccidere e, come “iniziazione” per diventare “veri soldati”, erano costretti ad ammazzare i propri genitori e i propri amici a bastonate, a farli a pezzi e a camminare sui loro resti. I bambini che sopravvivevano a questa esperienza perdevano in breve tempo la coscienza della propria dignità, vivevano un insostenibile senso di colpa che li portava a diventare cinici e spietati, completamente nelle mani di capi senza scrupoli.
L’unico modo per far tornare uomini gli ex bambini-soldato, ormai rifiutati da tutti, è stato quello di accompagnarli in un cammino. Disegnare per loro è stato il primo modo con cui i volontari dell’AVSI hanno avuto la possibilità di tirar fuori l’orrore che avevano vissuto, per poterlo superare, per tornare ad una vita normale, con degli amici e con delle persone cui voler bene.

Dopo la testimonianza, una ragazza ha chiesto al relatore come gli sia venuto in mente di partire per l’Africa e di iniziare un così lunga avventura. Semplice la risposta: “ho visto amici più grandi tornare a casa contenti, realizzati, li ho visti vivere più pienamente le cose di ogni giorno, e ho superato la paura di desiderare la stessa cosa anche per me”.

Può capitare anche a noi.