Uomini illustri di Pordenone: Andrea Marone

Uomini illustri di Pordenone del Cinquecento 1

Andrea Marone (1475-1528)

Ricorreva in questi giorni l’anniversario della morte, avvenuta quasi cinquecento anni fa, di un grande poeta di Pordenone: Andrea Marone (1475-1528). Ernesto Mottense, nobile di Pordenone e custode delle memorie cittadine, nel suo manoscritto sugli Uomini illustri di Pordenone, del 1752, scrive che «la famiglia Maroni, ora estinta (o diramata presentemente in Cividale del Friuli) ha avuta in Pordenone per parecchi secoli la sussistenza» (Archivio di Stato di Pordenone, Archivio Montereale-Mantica). Andrea Marone fu certamente il membro più illustre della famiglia, ma gli eruditi hanno discusso a lungo se egli fosse o no di Pordenone; riportando l’opinione del Conte Giovanni Maria Mazzucchelli, il Mottense scrive che «Marone giustamente può dirsi e di Brescia e di Pordenone; sia però che egli sia nato a Pordenone da padre bresciano o in Brescia da padre di Pordenon, non può concludersi che Pordenon vantar non possa ragione sopra la di lui origine».

Andrea Marone studiò a Pordenone e a Padova. Poi diventò insegnante di lettere a Venzone, dove, «contrasse familiarità de studi colli più eruditi soggetti di quel tempo, quali tutti sono da Pierio Valeriano annoverati in un Endecasillabo carminum: il Canale, il Navagero, Trifon Gabriele, Francesco Mottense e il Lampridio». Scrive poi il Mottense che «dalla suddetta professione passò il Marone a Ferrara, dove nella Corte d’Este, che era il nido e l’asilo de’ letterati, fu la prima volta altamente ammirata la sua prodigiosa felicità nel maneggiare all’improviso in qualunque sorte di metro latino». Diventato sacerdote, si trasferì a Roma, sotto il pontificato dei Leone X, protettore dei poeti. Anche qui ci fu «l’applauso e lo stupore col quale l’istesso pontefice e la Corte tutta si compiaceva della precipitosa sua vena poetica e della prontezza cola quale incontrava qualunque argomento che proposto gli fosse con tanto furore, come scrive il padre Quadrio nella sua Poetica, a guisa di colmo torrente e insieme con tanta destrezza e dolcezza che pareva impossibile che tali e tanti versi si concepissero nella sua mente e uscissero dalla di lui bocca senza prima esser pensati e composti. Pareva furioso anzi che ubriaco e le vene e gl’occhi gli si gonfiavano, come se invaso da uno ispirito o da un estro divino, grondandogli dalla faccia in gran copia il sudore».

Ernesto Mottense ricorda i versi a lui dedicati dall’amico Ludovico Ariosto, nella Satira I: «Fa a mio senno, Maron: tuoi versi getta / con la lira in un cesso, e una arte impara, / se beneficii vuoi, che sia più accetta. / Ma tosto che n’hai, pensa che la cara / tua libertà non meno abbi perduta / che se giocata te l’avessi a zara; / e che mai più, se ben alla canuta / età vivi e viva egli di Nestorre, / questa condizion non ti si muta. / E se disegni mai tal nodo sciorre, / buon patto avrai, se con amore e pace / quel che t’ha dato si vorà ritorre.» (vv. 115-126, e v. 171).

Purtroppo tali versi furono profetici, perché, come conclude il Mottense, «fu sconoscenza grande di Adriano VI che per la sua ingenita avversione ai poeti scacciò fuori dalle stanze del Vaticano il povero Marone, già a lui assegnato dal munifico ai letterati Leon X, onde egli ritiratosi a Tivoli, fu poi richiamato da Clemente VII per sua mala ventura, poiché trovatosi in Roma nell’anno fatale del sacco 1527 fu ben tre volte preso dagl’imperiali, barbaramente trattato e spogliato d’ogni suo havere e del tutto quanto haveva di sue poesie indarno rintracciate, cosicché, rimasto in estrema povertà, fu sforzato andarsene per Roma accattando tozzi uscio per uscio, finché un anno dopo il sacco finì di vivere in una taverna Alla Scrofa miseramente alla età d’anni 53».

Possiamo leggere un suo epigramma, trascritto da Ernesto Mottense, su indicazione del portogruarese don Bartolomeo Sabbionato, «scrutatore istudiosissimo d’ogni sorte di erudizioni», che si trova alla fine del Carminum Hieronimii:

Super statua Laocoontis

Andrea Maro

Laocoon ego sum, sunt haec mea pignora: cernis

Pestiferos angues, a quibus ulta dea est

Eheu me miserum: potui si tanta mereri

Monstra seme, certe non ego bis merui

Cur iterum coram morientes cernere natos

Cogor, et aeterne vivere supplicio?

Tres illi saltem artificices duo corpora prolis

Fecissent alio marmore meo alio

Non tanti haec mihi vita fuit, semel isse suab umbris

Praestiterat, quam sic vivere, et usque mori.

Sopra la statua di Laocoonte

 

Laocoonte sono, questo è il mio profitto: li vedi

Pestiferi i serpenti, con i quali la dea si è vendicata.

Ah, me misero: se anche avessi meritato

Mostri simili una volta, certo non me lo sono meritato due.

Perché ancora una volta a vedere i figli morenti

Costretto sono, e a vivere eternamente in questo supplizio?

Se gli artisti di tre, in un pezzo i due corpi dei figli

Avessero scolpito e in un altro marmo il mio.

La vita per me non ha avuto un gran valore,

Andare una volta per sempre tra le ombre

Sarebbe stato preferibile, piuttosto che vivere così

e continuamente morire.

(trad. Roberto Castenetto)