Il culto mariano ad Aquileia 3
Intervento a Radio Voce nel deserto di Pordenone del 7.04.2020
In questi giorni è uscito un libro di Claudia Giordani, Il cristianesimo egiziano di Aquileia, Gaspari editore, 2020. Non entriamo nel merito di tutti i contenuti del libretto, che ci porterebbero lontano dal nostro percorso: diciamo solo che l’autrice sostanzialmente rispolvera una vecchia ipotesi di Renato Iacumin, scomparso nel 2012, secondo cui sarebbe esistita nella città romana una comunità di orientamento gnostico, che avrebbe commissionato i mosaici dell’aula Nord tra il II e il III secolo d.C.
Ricordiamo solo che le radici dello gnosticismo risalgono alla filosofia greca di Platone e Plotino, che consideravano, al pari degli gnostici, l’anima come imprigionata nel corpo. Gli gnostici separavano radicalmente un Dio perfetto e un dio inferiore e creatore del mondo degli uomini che è dominato dal male. Credendosi eletti di Dio, si attribuivano una sorta di scintilla divina nascosta nella parte più intima del loro essere, che si supponeva avrebbero scoperto grazie all’introspezione e a una determinata ascesi.
È abbastanza evidente che tutto ciò ha ben poco a che fare con il cristianesimo, ma la Giordani sostiene che lo gnosticismo presente ad Aquileia era appunto egizio, frutto di una commistione tra concezioni greche e concezioni religiose dell’Antico Egitto, come il mito di Iside e Osiride, idee mescolatesi nel grande laboratorio filosofico e teologico che fu Alessandria d’Egitto, un cristianesimo secondo la Giordani «intriso di una forte coloratura magica». Ora che il cristianesimo aquileiese avesse forti legami con Alessandria d’Egitto è un dato di fatto, ma quello che non si comprende è che ciò che legava le due chiese fu proprio il culto mariano. Non a caso ad Alessandria fu costruita, poco prima che ad Aquileia la prima chiesa dedicata alla Madonna, da parte del patriarca Teona (281-300), completata dal suo successore Pietro martire (300-311). Dall’Egitto verrà anche l’iconografia mariana più antica, con la figura di Maria che regge il Bambino in braccio o lo allatta.
Ma ritornando ai mosaici dell’Aula Nord, che la Giordani cerca di ricondurre a simbologie gnostiche, sulla scia di Iacumin, occorre dire che tali immagini possono avere varie interpretazioni, proprio perché ci manca la grammatica per poterle leggere e interpretare in modo chiaro. Alcuni anni fa Giuseppe Cuscito ha fornito una rassegna delle varie interpretazioni e sappiamo che altri studi stanno per essere pubblicati. Il mosaico Nord è anche stato fortemente compromesso dalle fondazioni del campanile medievale, per cui la lettura è ancora più difficile. Nella parte alta, sul lato Est, verso cui era rivolta la chiesa o domus ecclesia, nell’ipotesi che fosse un luogo di riunione dei cristiani prima di Costantino, e che non dimentichiamolo era rivolta verso il punto dell’orizzonte in cui il sole sorge il 15 agosto, giorno dell’Assuna, abbiamo, partendo da destra un coniglio o una coniglia bianca, poi un gallo e una tartaruga e infine un ariete, con la famosa scritta CYRIACE VIBAS. Il tutto in una fila di ottagoni, alcuni dei quali coperti da un tappeto di stelle. Non è ancora chiaro il significato della sequenza coniglia bianca, gallo/ tartaruga e ariete. Da più di cento anni, ovvero da quando furono scoperti i primi mosaici dell’Aula Nord, a fine Ottocento, che gli studiosi si confrontano e si scontrano sul significato degli stessi. E questo non deve meravigliare, perché il tema delle origini del cristianesimo è cruciale, per ovvi motivi. Si continua a discutere anche sulla funzione liturgica dell’Aula Nord, che qualcuno vorrebbe destinata sin dagli inizi alle celebrazioni eucaristiche, per altri sarebbe invece stata usata per la catechesi. Non entriamo nel merito della questione, anche perché usciranno nuovi studi in merito, speriamo chiarificatori, ma certo è che la scritta CYRIACE VIBAS, se non si riferisce a una persona di nome Ciriaco, cui si augura lunga vita, allude alla parola greca KYRIOS, ‘Signore’, e quindi significa “che tu viva o Signore”, espressione che poteva essere rivolta anche a un battezzato, che dopo avere ricevuto il sacramento che ci inserisce nel corpo di Cristo, deponeva la veste bianca nell’ottava di Pasqua, “in albis deponendis” si chiamava la cerimonia, e diventava capace di annunciare Cristo a tutti: e quindi “che tu viva uomo del Signore”.
Dicevamo prima che Guglielmo Biasutti era convinto del fatto che la chiesa di Aquileia avesse «un accentuato culto mariano”. Lui porta come prova le litanie alla Madonna, che sono ben novanta secondo la tradizione, mentre quelle Lauretane, ad esempio, sono cinquanta. Tra i tanti titoli Biasutti ricorda Sancta Maria Imperàtrix nostra, Sancta Maria, honor, laus et gloria nostra e Sancta Maria hìlaris et plena laetitiae, Sancta Maria mater veri gaudii, oppure Sancta Maria iter nostrum ad Deum.
C’è poi, sempre secondo Biasutti, l’antica preghiera mariana, che abbiamo già ricordato in un precedente incontro, nata durante le persecuzioni dei cristiani copti, mentre a Roma regnavano gli imperatori Settimio Severo (193-211) e Decio (249-251), Sub tuum praesidium, che sarebbe entrata nella liturgia di Aquileia sin dagli inizi del IV secolo: Sub tuum praesidium confugimus, sancta Dei Genitrix, nostras deprecationes ne despicias in necessitatibus nostris, sed a periculis cuntis libera nos semper Virgo gloriosa et benedicta; «noi ci rifugiamo sotto la tua protezione, o Santa Madre di Dio; non disdegnare le nostre suppliche nelle necessità; ma liberaci da ogni pericolo, o Vergine Gloriosa e benedetta». Notiamo che nella preghiera c’è già il titolo di Dei genetrix, ben prima del Concilio di Efeso (431) e questo significa che tale titolo era liturgico ed era la preghiera del popolo. A Efeso non si affrontò solo una questione teologica, ma si affrontò una questione riguardante una credenza già radicata nel popolo.
Questo spiega anche il motivo per cui la chiesa di Aquileia combatterà con vigore le varie eresie, salvo forse un cedimento con il vescovo Fortunanziano nel 358. In ogni caso i pastori di Aquileia si opposero all’arianesimo, secondo cui Cristo era solo una creatura e quindi non figlio generato dal Padre; Aquileia si oppose al docetismo gnostico, secondo il quale Cristo era pura apparenza; all’eresia nestoriana, che vedeva in Cristo due persone, e infine all’eresia monofisita, che vedeva solo la natura divina di Cristo.
Nel Concilio di Costantinopoli (381), in cui si chiarì ulteriormente il Credo cattolico, fu inserita per la prima volta la figura di Maria. Si trattò di una lunga e difficile discussione teologica che chiarì la natura dell’uomo uomo che è quella di essere figlio e che Gesù è venuto in questa natura umana, come Figlio del Padre. Cristo è Figlio del Padre e non ha bisogno di un’altra persona, come diceva Nestorio, una divina e una umana, per cui il Concilio di Calcedonia (451) dirà che in Cristo ci sono due nature (umana e divina) in una Persona. Gesù è figlio obbediente a Maria e Giuseppe (IV comandamento), come fu obbediente al Padre. Cristo ha accettato la natura di Figlio dell’uomo, la ha confermata, anzi, si è trovato a suo agio in questa natura di figlio, Lui che era il Figlio. Il Figlio fatto uomo si è veramente incarnato perché ha accettato la natura di figlio che è quella dell’uomo, salvo che nel peccato originale, e l’ha portata a compimento come Figlio del Padre. La Persona del Figlio, facendosi uomo, ha compiuto la natura di figlio che é quella dell’uomo.
Ebbene queste verità, prima di essere chiarite dai teologi erano ben presenti nella fede del popolo e del popolo egizio in particolare, come testimonia la prima iconografia cristiana, della Madre con il Bambino, che fu comune ad Alessandria d’Egitto, a Roma, come ad Aquileia.
Ma, dice Biasutti, è ancora una volta nell’iconografia dei mosaici che troviamo testimoniato il culto mariano aquileiese. Secondo lo studioso friulano al centro dell’Aula Sud del complesso basilicale, ovvero nella parte della chiesa che tutti visitano ad Aquileia, c’è la Nike, come la chiamavano i greci, o la Victoria, come la chiamavano i romani, rappresentata da una figura alata. Questa, secondo Biasutti, è la Vergine Maria, la Nicòpeia, che significa “apportatrice di vittoria”, la Vergine che protesse per mille anni Costantinopoli e che non a caso sarà poi dipinta nel catino absidale di Aquileia, quando nell’XI secolo la Basilica, consacrata dal Patriarchi Popone, ritornerà all’antico splendore. È un’immagine che si può interpretare anche come vittoria eucaristica, come fece il nostro Celso Costantini, che nel 1915, mentre infuriava la Guerra, fu chiamato ad Aquileia come parroco e Conservatore della Basilica.
Certo è che la Vittoria di cui si parla è quella di Cristo, che il Sabato Santo scende agli inferi, per salvare i protagonisti dell’Antico Testamento, secondo la formula del credo di Aquileia, che sarà poi fatta propria da tutta la chiesa: «crucifixus sub Pontio Pilato et sepultus, discendit ad inferna, tertia die resurrexit a mortuis”. Dante ce ne fornisce una visione molto viva nel IV canto dell’Inferno quando Virgilio gli dice: «Io era nuovo in questo stato (era morto nel 19 a.C.)/, quando ci vidi venire un possente ( era Cristo il Sabato santo),/ con segno di vittoria, coronato ( e la figura di Aquileia tiene nella destra una corona di alloro)./ Trasseci l’ombra del primo parente (è Adamo),/ d’Abel suo figlio, e quella di Noè,/ di Moisè legista; e obbediente/ Abraàm patriarca, e David re,/ Israèl con lo padre (ovvero Giacobbe, con suo padre Isacco) e coi suoi nati/ e con Rachele, per cui tanto fé (Isacco aveva servito 14 anni il padre di Rachele per averla in moglie)/ e altri molti, e feceli beati».
Il vescovo Cromazio, alla fine del IV secolo, parla di triumphus victorie in una sua riflessione sul peccato d’origine e sulla vittoria di Cristo: «Illic vir per virginem ruit; hic vir per virginem stetit. Illic ruina mortis, hic triumphus victoriae», ovvero “quello là (Adamo) per una vergine (Eva) rovinò; questo (Cristo) per una vergine sta ritto; quello là ha portato la rovina della morte, la corruzione, perché ruit significa questo, la corruzione inevitabile delle cose; questi ha portato il trionfo della vittoria”.
E in una omelia sulla vegli pasquale, sempre Cromazio dice: «Discese dal cielo sulla terra per visitare il mondo (ut mundum visitaret); dalla terra di nuovo discese agli inferi, per portare luce a coloro che erano prigionieri nell’inferno, secondo il detto del Profeta che dice: “Per voi che sedete nelle tenebre e nell’ombra della morte una luce è sorta (Is,9,2)”. È proprio adatto allora chiamare la “veglia del Signore” questa notte in cui non solo Egli ha illuminato il mondo, ma ha portato luce anche a coloro che si trovavano negli inferi» (Sermone 16).
E in un altro sermone, sulla Passione del Signore, dice: «Come re viene vestito proprio della tunica di porpora, e del manto scarlatto come principe dei martiri, poiché risplende del suo sangue sacro come di porpora preziosa. E indossò la corona come un vincitore, perché effettivamente la corona viene conferita a chi vince. E viene adorato in ginocchio come Dio. Dunque è vestito di porpora come un re, di scarlatto come il principe dei martiri, è incoronato come un vincitore, salutato come un Signore, adorato come Dio. Possiamo allora ravvisare nella tunica di porpora anche la raffigurazione della chiesa, che mantenendosi in Cristo re risplende della gloria regale. Perciò è chiamata anche stirpe regale da Giovanni nell’Apocalisse» (trad. Marianna Cerno).
Chi è dunque la figura al centro del mosaico di Aquileia, con una tunica di porpora, che solo gli imperatori potevano portare, rappresentata come una Vittoria romana, con le ali, la corona, se non la Vergine Maria, immagine della chiesa vittoriosa dopo le persecuzioni, della chiesa indissolubilmente legata a Cristo, vincitore della morte?
Aula Sud, Vittoria cristiana, inizi sec. IV.