Augusto Del Noce: il laico cattolico

Se nel libro ‘Il cattolico comunista’ Augusto Del Noce contesta il richiamo alla fede di Franco Rodano per un’adesione religiosa alla posizione comunista, ne ‘Il problema dell’ateismo’ aveva invece sostenuto che il riferimento alla visione religiosa fosse necessario a proposito della laicità; al punto che questa, da nessun altro come dal cattolico potesse venir rivendicata e garantita. Il laico passa per avere un vivo senso della dignità umana, della sua libertà e indipendenza, dell’autonomia di pensiero e di decisione; per il suo opporsi deciso ai soprusi dell’autorità nei confronti della coscienza; per il suo esigere che non si imponga a nessuno di aderire ad una verità, senza che sia l’interessato stesso a convincersi e a decidere di farlo. Se per laicità si intende questo, Del Noce la professò in tutta la sua vita. Venne però isolato e combattuto proprio dalla cultura che si dice laica. Come mai? Cresciuto nella laica Torino, dove la laicità era attribuita solo a chi non seguiva i dettami della Chiesa e ne contrastava anzi l’autorità, Del Noce si avvide che i laici spesso non lo erano fino in fondo. Anch’essi professavano un ‘credo’, che poi imponevano dogmaticamente. Né più e né meno come rimproveravano facesse la Chiesa cattolica. Del Noce contestò loro questo carenza di laicità e subì l’ostracismo; culturale, da parte della azionista ‘Repubblica delle lettere’, politico da parte della marxistica prassi invalsa con la Resistenza. Anche nei laici quindi funzionava un ‘clero’, quel gruppo ristretto ed esclusivo di persone che avoca a sé la guida esclusiva di ciò che altri devono pensare e fare. L’allargamento del clericalismo oltre lo spazio ecclesiastico il Del Noce lo descrive prospettandone il contraccolpo anticlericale che esso provoca: L’anticlericalismo è la ‘reazione a ogni posizione di pensiero che dia luogo, nelle sue conseguenze pratiche, al predominio secolare di una casta -quale che siano i modi di presentarsi e di affermarsi- sacerdotale, legata naturalmente ad altri interessi mondani; che diventi per ciò storicamente strumento della volontà di potenza di questa casta. Perciò, originariamente reazione morale dell’individuo contro la potenza mondana della Chiesa (l’anticlericalismo) diventa, dopo la filosofia della storia, antitesi in nome dell’etica allo spirito di conciliazione con la realtà di questo mondo: spirito di conciliazione che dissimula una volontà di potenza che per realizzarsi deve dar luogo ad una organizzazione, la cui autorità ha bisogno di assumere un carattere sacrale in quanto conservatrice del deposito di una Rivelazione soprannaturale o in quanto rappresentante il Progresso, l’Evoluzione, la Scienza, la Storia , l’Umanità, la Nazione…’(Il problema dell’Ateismo, Il Mulino, Bo – ed IV – 1990, pp.50-51) Un clericalismo, dunque, pur in chiave laica, che non cessa per ADN di essere negativo –Non si può accettare che uno o pochi pensino o decidono per altri, per molti- e quindi da condannare. E il laico che lo pratica, da laico scade a ‘laicista’, affiliato cioè ad una chiesa, con i suoi dogmi e sacerdoti. Ma il ripresentarsi di un ‘clero’(laico) per combatterne un altro (quello religioso) porta a fermare l’attenzione sul costituirsi delle élites, che però si presenta subito non appena un gruppo di persone passa dalla teoria alla pratica, nella necessità di coordinare la molteplicità. Occorre che qualcuno parli a nome di tutti e li rappresenti. Altrimenti i molti restano afoni, amorfi, divisi, inconcludenti. Il costituirsi dell’élite un fatto fisiologico, perché il molteplice si strutturi, si organizzi, si attivi. Non dunque della sua esistenza c’è da meravigliarsi, ma della sua eventuale scorrettezza o abuso. Accettato dunque il ‘clero’ in sé, quale dunque il difetto che fa di quello cattolico un abuso. Quello laico eserciterebbe un potere su persone, che preventivamente gliel’hanno dato perché lo faccia su di loro in nome loro, mentre quello ecclesiastico eserciterebbe un potere su persone da cui non è stato investito. Il problema allora non starebbe nella ristrettezza del numero di persone cui viene affidato un potere su altri, ma nella forma della costituzione dell’élite. C’è il gruppo ristretto, controllabile e sostituibile dalla base (democratico), e il gruppo che invece viene imposto alla base e non è da essa controllabile né sostituibile (dittatoriale, teocratico). Eppure nella democrazia, quando cioè le élites nascono dalla base, ci sono decisioni non da tutti volute, ma che pure tutti accettano: i ‘pochi’ decidono per i molti, (o per la totalità) pur sapendo che manca la totalità dei consensi. Evidentemente perché si ritiene che con quelle decisioni non siano stati violati i diritti sostanziali delle persone della comunità. Si sottintende con ciò che ci sono delle decisioni che anche al gruppo lecitamente costituito non è lecito prendere. Laico perciò sarebbe chi esige, oltre alla costituzione democratica dell’élite che decide per gli altri, che ci siano dei limiti oltre i quali le decisioni della lecita élite sono illecite. E’ quindi sia sulle competenze dell’élite, che sulla portata delle stesse, che si sposta la questione della liceità dell’élite. Il laico fissa il campo di queste competenze a dei limiti stabiliti democraticamente della gente. Se però pensiamo al genio, allo scienziato, al medico vediamo che si ha a che fare con competenze di cui sarebbe ridicolo riservare la investitura ad una votazione democratica. Anche se ha la maggioranza dei consensi, una persona inesperta non lo diventa per la volontà popolare. C’è qualcosa nella competenza che non ha niente a che fare con la volontà democratica. E’ qualcosa di previo, che mette fuori gioco la scelta democratica. La scelta non crea la competenza, ma la presuppone. Nelle malattie noi ci rivolgiamo ai medici, riconoscendo la nostra incompetenza e affermando la necessità di fidarsi della loro. Se ben pensiamo però, quello della competenza non è un fatto tanto straordinario, esso si verifica normalmente ogni giorno. Sono più le cose che facciamo sulla testimonianza di altri che quelle basate sulla sperimentazione personale. Se così non fosse, ne faremmo ben poche di cose, in una giornata. E con molto disagio. Quindi l’affidarsi a qualcuno, il basarsi su quello che noi non abbiamo esperimentato è un fatto comune e da tutti accettato. Dobbiamo servirci in continuazione dello specialista, dell’esperto, del testimone. E ciò tocca anche la ‘competenza’ di cui il laico esige il rispetto. Egli non ha niente da ridire riguardo alle competenze conferite alla élite dalla base. Ma si riserva in tale delega il settore indelegabile delle sue cose personali. Per una tale competenza egli non riconosce abilitante una votazione. Né più ne meno dii quello che pensa la gente comune che non considera necessario il voto per le competenze ricordate nel vivere quotidiano. Però va riconosciuto che per cose personali si entra in un settore specialissimo: sulle mie cose, sulla mia coscienza sono io –dice il laico- e solo io, il competente. C’è una sfera personale che impedisce a chiunque, che non sia il titolare, di parlarne; non lo può perchè non può accedervi. E’ un sacrario inviolabile. E’ una primarietà inviolabile, la cui peculiarietà il Del Noce ha indicato come propria di chi non si piega ad una verità, finché non è lui stesso a rendersene conto e a riconoscerla. E qui sta il punto. Se nessun altro che noi stessi può entrare in noi, né obbligarci a fare quello che non vogliamo, è però indubitabile che quello che solo noi vediamo in noi non dipende affatto da noi. Non ce lo creiamo noi, ma ce lo troviamo già fatto dentro di noi, si impone a noi. Se nessuno di esterno a noi può imporci di vedere quello che solo noi possiamo vedere, neppure noi possiamo imporre a noi quello che ci si presenta dentro di noi, in modo diverso da come si presenta a noi. Se lo facciamo, vediamo subito di andare contro di noi, falsificando noi con la verità. Purtroppo infatti la verità, oltre ad essere oscurata da altri, può esserlo anche da noi, quando non la accettiamo così come si presenta a noi in noi. La verità va ascoltata. Essa chiede di essere accolta, e di esserlo senza manipolazioni. Nei suoi confronti noi siamo in posizione di attesa e di ascolto: su di essa noi non abbiamo alcun potere. Ne siamo beneficiari e nel riconoscerlo diamo libero corso in noi alla verità, e ciò ci fa liberi. Non solo dagli altri e dalle loro imposizioni, ma anche da noi e dai nostri capricci e interessi. Ed è discorrendo sulla verità, che la coerenza sincera ci porta alla Verità, con la V maiuscola. Il discorso che sta alla base dell’atteggiamento religioso. Ed è tale Verità che fa evitare il sorgere del clericalismo all’interno della religione; e senza di Essa, anche il clericalismo, che appare in campo laico, risulta insuperabile. Solo il riconoscimento della Verità e la sottomissione ad Essa garantiscono la libertà, l’indipendenza, l’autonomia della persona, e la sua salvaguarda dai soprusi, specie da quelli insidiosi che provengono dall’interno del nostro io. Tale Verità cessa di apparire semplicemente un oggetto di conoscenza. Essa si mostra ad un certo momento Soggetto vivente. Persona; con cui ci si sente in contatto, anche se il Suo ‘mondo’ totale ci è precluso. Un mondo la cui comunicazione resta Sua esclusiva competenza, compresa la modalità con cui può esserci fatta. Ed è questa competenza a spiegare la esistenza di un’élite diversa da quella proveniente dal basso, di un clero che non deve rispondere in primis al popolo, perché, scelto dall’alto è posto a garantire la genuinità della Verità, fonte di tutte le verità, di cui è plasmato il nostro io e il nostro mondo. Ecco perché solo su base religiosa si può essere laici, e laici fino in fondo. Godere cioè di una libertà di coscienza totale, non basata su precarie convinzioni soggettive, ma ancorata sulla Verità incontestabile. Ecco perché il Del Noce fu laico, e di una laicità maggiore rispetto ai tanti che ne portano appiccicata in fronte solo poco più che l’etichetta. Ecco perché Del Noce ebbe la capacità di vedere e giudicare in modo così perspicace la storia e il pensiero contemporanei.