Diario di eventi e contributi
Sabato 2 marzo, alle ore 17.00, nell’Auditorium dell’Istituto Vendramini, si svolgerà un dibattito sul tema “Il fine vita, tra paura e speranza”, promosso del Centro culturale Augusto Del Noce, nell’ambito del progetto Laudato sie. Sarà un dialogo tra Emmanuel Exitu, autore del romanzo Di cosa è fatta la speranza, edito da Bompiani, Simon Spazzapan, oncologo del CRO di Aviano e Andrea Cabibbo, avvocato e consigliere regionale, moderati da Michele Alzetta, primario del Pronto soccorso di Venezia.
Il romanzo di Exitu, che sta avendo notevole successo in tutta Italia, si ispira alla vita di Cicely Saunders (1918-2005), infermiera e poi medico inglese, che dedicò tutta la vita alla cura degli inguaribili e al loro accompagnamento fino alla morte. A lei si deve la scoperta delle cure palliative moderne, le cui procedure sono oggi considerate dall’OMS punto di riferimento per migliorare la qualità della vita dei malati terminali. A lei si deve la creazione del primo moderno hospice, non come posto dove si va a morire, ma dove si può vivere fino all’ultimo istante con dignità. La storia di questa donna, dalla caparbietà visionaria, ci dice che la sofferenza si sconfigge prima di tutto con un farmaco di cui tutti possiamo disporre: l’empatia, la capacità di prendersi cura del malato accanto alla sua malattia.
Di cosa è fatta la speranza quindi? “La speranza è un posto dove puoi morire scoppiando di vita – dice l’autore del romanzo – La speranza è fatta di cose che hanno bisogno di qualcuno che le faccia accadere”. Questo perché, come diceva la Saunders, “l’esperienza totale del paziente comprende ansia, depressione e paura; preoccupazione per il dolore che affliggerà la sua famiglia; e spesso il bisogno di trovare un significato alla situazione e una realtà di cui fidarsi”. Oltre alle cure mediche è pertanto necessario essere aiutati a trovare il senso della malattia e dell’approssimarsi della morte, che San Francesco chiamò sorella nel suo Cantico delle creature.
Mostra “La lauda medievale: da San Francesco a Pietro Edo”
“La lauda medievale: da San Francesco a Pietro Edo” è il tema della mostra promossa dal Centro culturale Augusto Del Noce nel nuovo spazio espositivo del Museo Diocesano di Arte sacra, in Via Revedole 1, dal 3 febbraio al 23 marzo 2024 (con aperture martedì, venerdì e sabato dalle 10.00 alle 12.00). Ideata come contributo per il centenario del Cantico di frate Sole, scritto da San Francesco seicento anni fa, la mostra è sostenuta dal Comune di Pordenone, in collaborazione con il Museo Diocesano e il Centro Studi Odoriciani. Si tratta di una esposizione a carattere didattico, costituita da una quarantina di pannelli e da alcune opere d’arte a tema francescano di Giancarlo Magri.
L’inaugurazione si terrà sabato 3 febbraio, alle ore 10.30, nell’Auditorium Celso Costantini della Curia di Pordenone, con un intervento di Agostino Molteni, già docente di teologia e filosofia a Petrópolis e Concepción, sul Cantico delle creature, e di Matteo Venier, ricercatore dell’Università di Udine, sulla figura di Pietro Edo.
La mostra è accompagnata da un quaderno che raccoglie alcuni approfondimenti sui temi proposti, sia riguardo alle laudi, sia riguardo all’enciclica Laudato si’ di papa Francesco, che nasce come riflessione sullo stato della Terra e dell’azione dell’uomo proprio a partire dal Cantico delle creature. Su questi aspetti di attualità intervengono in particolare Agostino Molteni e Ivan Gladich, della Hamad Khalifa University. A latere della mostra sono previsti anche incontri sulle tematiche dellenciclica
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Quaderno 9 – La lauda medievale – da San Francesco a Pietro Edo_29-01-24 (3)
Pier Paolo Pasolini e la morte del fratello Guido «martire-Cristo»
Obiettivo di questo breve contributo è di mettere a confronto i primi scritti letterari di Pasolini dettati dal dolore per la morte del fratello Guido, nella convinzione che in essi trovi espressione uno dei drammi centrali dello scrittore, posto improvvisamente di fronte a un sacrificio che lo interrogherà per tutta la vita, la cui memoria riemergerà costantemente nella sua opera come le acque del Tagliamento – da lui tanto amato – che si inabissano nelle ghiaie e poi ricompaiono, senza alcuna regola, lungo il percorso libero e selvaggio del fiume. Si tratta di opere poetiche indispensabili per indagare il pensiero dello scrittore, nel suo farsi da subito drammatico, per i suoi nodi personali irrisolti personali e per quelli legati al suo tempo. Ci sembra inoltre che in questa vicenda si possano cogliere riscontri delle acque sotterrane e poi emergenti del suo doloroso e sofferto incontro-confronto con l’avvenimento cristiano, quello di Dio, di Cristo, dei cristiani.
Il primo testo in cui Pasolini scrive della morte di Guido viene composto in pochi giorni di intensa ispirazione, poco dopo avere avuto la certezza della morte del fratello, come testimoniano le note che seguono, poste in calce a una delle versioni manoscritte del dramma teatrale I Turcs tal Friûl:
I ai scrit i Turcs dal 14-15 al 22 di maj – il vinçedoi, dì trist, apena disnat. I mi soi sintut pierdut coma mai, besoul, ta li Agussis. I ai lavorat cuatris oris e miesa e dal «coru dai Turcs» scrit stamatina, i ai finit il miracul. Sensa quistu dì, Maj a è stat un mies assai biel. Mars, Avril, meis beas; grant equilibri, lus, perfetiòn ta la conosensa di me; (esistensia sempri ta la pica di me stes). Ringratiàn il Signour Amen.
22 di maj, sera spetant Rosari
[Ho scritto i Turchi dal 14-15 al 22 di maggio – il ventidue, giorno triste, appena pranzato. Mi sono sentito perduto come mai prima, solo, alle Agussis. Ho lavorato quattro ore e mezza e dal «coro dei Turchi» scritto stamattina sono arrivato a finire il miracolo. A parte questo giorno, Maggio è stato un mese assai bello. Marzo, Aprile, Maggio mesi beati; grande equilibrio, luce, perfezione nella conoscenza di me (esistenza sempre al vertice di me stesso).
Ringraziando il Signore. Amen.
22 maggio, sera aspettando Rosario][1]
Lo scrittore si sente «perdut come mai, besoul, ta lis Agussis», per la perdita del fratello. Il dramma teatrale sarebbe dunque il primo scritto letterario in cui Pier Paolo esprime i propri sentimenti e il proprio pensiero su Guido. Infatti, pur recando la data del maggio 1944 in una delle sue versioni, esso risale in realtà al maggio 1945, come sostenuto e dimostrato recentemente da Andrea Zannini[2]. Inversamente bisognerebbe attribuire al poeta capacità divinatorie, come fece Giuseppe Zigaina[3] che scrisse della «dichiarata possibilità, da parte di Pasolini, di prevedere il futuro»[4]:
“In questa pièce teatrale Pasolini anticipa – come per premonizione – la morte del fratello Guido, massacrato alla malga Porzûs nel febbraio del 1945, in realtà a Bosco Romagno (n.d.r.). Il fratello di Pasolini, dopo la caduta del fascismo, raggiunse in montagna (le montagne del Friuli orientale al confine con la Jugoslavia) le formazioni partigiane di orientamento nazionalista. In seguito alle aspre contese sui futuri confini, oltre che sul modo di combattere i tedeschi, un commando partigiano di ispirazione comunista uccise il gruppo dirigente delle brigate nazionaliste, tra cui, Guido Pasolini. Nella finzione scenica i due fratelli Meni e Pauli – riferiti in realtà a Guido e Pier Paolo – si sovrappongono, si fondono talvolta, per sdoppiarsi nuova-mente come in un giuoco di specchi. Pauli-Pier Paolo piange il fratello Meni con queste parole: «Tu fratello, tu vivo con me, giovane con me, martire con me…»” Ma ecco i-fatti nel testo teatrale. La sera del 30 settembre 1499, a Casarsa della Delizia, nel cortile della casa dei Colussi, che è il cognome della madre di Pasolini ma anche di uno dei suoi antenati che realmente assistettero all’avvenimento narrato, «un messaggero reca notizie drammatiche: il Turco ha varcato l’Isonzo e avanza distruggendo e bruciando; sono diecimila a cavallo e seicento a piedi…». Bisogna decidere. Alcuni si raccolgono in preghiera; altri fuggono nel bosco, mentre Meni (Guido) «… corre a raccogliere i coetanei dei paesi vicini per tentare una generosa opera di difesa». Arrivano altre notizie: i Turchi stanno passando il Tagliamento a guado (il Tagliamento è il grande fiume che scorre vicino a Casarsa); «Si oscilla tra speranza e terrore ed in questo frangente Giovanni Colussi [l’antenato della madre di Pasolini] fa voto di erigere una chiesa se scamperanno alla morte». Qualcuno inizia a piangere e a pregare, «mentre in lontananza si alza il coro dei Turchi protervo e solenne». Tutto l’orizzonte è ormai in fiamme. Allora Lucia, la madre, sale angosciata sul granaio della casa per vedere cosa succede e scorge un gruppo di giovani inseguiti dai Turchi che tra-sportano il corpo straziato di Meni, il fratello di Pauli. Ma nell’ansia e nella disperazione generale si alza un gran vento, e nella polvere che esso solleva i Turchi si allontanano”. In sostanza testo teatrale, confondendo passato e presente, e invasioni alle rappresaglie nazifasciste degli anni in cui il testo è stato scritto. Ma i fatti storici sono documentati in una lapide murata nella chiesetta di Santa Croce costruita ex voto dagli abitanti di Casarsa scampati al massacro. Ed è in questa chiesetta (dove per secoli i Colussi hanno pregato) che è stato officiato il rito funebre per Guido ma anche per Pier Paolo. È lì che si ripete il pianto della madre Susanna davanti alla bara, prima di Guido e poi di Pier Paolo. Ma si ripete anche, identico, nella scena del Vangelo secondo Matteo (il film di Pasolini) dove la Madonna piange il figlio sulla croce. Ci sono fotografie che lo documentano. Sempre lei Susanna, le stesse lacrime. Gli stessi vestiti; c’è perfino la stessa persona che sostiene la madre-madonna e la conforta (Graziella, la nipote di Pasolini)”. [5].
Anche recentemente, un altro studioso ha scritto che «questa epopea storica viene concepita poco prima della tragica morte del fratello Guido, svolgendo un ruolo apotropaico che non salva però il parente, anzi ne vaticina la fine, lutto immedicabile che lascerà tracce indelebili e colpevolizzanti nell’immaginario di Pier Paolo»[6]. Ma, se è noto che la partenza di Guido per le montagne nel maggio del 1944, preceduta da forti discussioni in famiglia, portò la madre Susanna Colussi e il fratello Pier Paolo a temere, nei mesi successivi, per la sua incolumità e a prefigurare anche la sua possibile morte, è evidente che l’intensità della pièce teatrale trova la sua ragione solo dopo che la tragedia si è consumata, come leggiamo in queste parole di Pauli Colùs:
Ti vevis razòn, fradi. Ti eris zovin, ma ti eris vif; e jo i no mi ‘necuarzevi. Ti eris dut zovin dai çavièj ai piè: dut zovin e flurìt; e ti vevis poura di muri. Ades, i mi necuàrs da la to zoventùt, ades q’i viòt il to cuarp di muart. Un zovin vif coma q’i ti eris al podeva preà, al podeva; o blestemà; o murì… E ades puor zovin muart tal to cuarp a resta doma qe la zoventùt cu ‘l biel volt culurìt.
[Avevi ragione, fratello. Tu eri giovane, ma erí vivo; e io non me ne accorgevo. Eri tutto giovane dai capelli ai piedi: tutto giovane e in fiore; e avevi paura di morire. Adesso, mi accorgo della tua giovinezza, adesso che vedo il tuo corpo morto. Un giovane vivo come eri tu poteva pregare, poteva; o bestemmiare; o morire … E adesso povero giovane morto nel tuo corpo resta solo la gioventù con il bel volto colorito].
Dopo I Turcs abbiamo un breve testo in prosa denominato Il martire ai vivi, che compare nel terzo numero dello «Stroligut», il fascicolo letterario casarsese che Pasolini aveva iniziato a pubblicare nel 1944. Qui è Guido “Ermes” che si rivolge ai paesani, per testimoniare il senso del proprio martirio:
“Coscientemente ho cercato la morte dopo una breve giovinezza, che pure a me pare eterna, essendo l’unica., l’insostituibile che io avessi avuto in sorte. Coscientemente ho rinunciato all’inenarrabile gioia di essere al mondo con me stesso, e i miei genitori e mio fratello e tutti voi; ma ho pagato questa mia rinuncia con uno strazio tale che solo un vivo può comprenderlo. Coscientemente fui martire dopo un anno di lotte, di fame, di patimenti, li sofferenze, di guerra; eppure, essere stato un valoroso era ben nulla; nulla, poiché non c’è confronto possibile fra tutto ciò che è di codesta vita e il silenzio terribile della morte. Ora, io, martire, mi rivolgo a voi vivi. Non per digradarvi con questa mia umana grandezza, che, cercata per sé stessa, con la generosità. innocente di chi non aveva ancora vent’ anni, è finita con me, ivi questo assoluto silenzio, ed io non chiedo compensi di nessuna specie. È stato il mio cuore entusiasta che mi ha portato a questo incredibile sacrificio: io non potevo sopravvivere al mio entusiasmo; e accetto, così, la mia sorte. Io mi rivolgo a voi per raccomandarvi di non dimenticare i sentimenti che mi hanno condotto alla morte, e gli ideali che mi fanno martire. L’Italia non è caduta, ed io non la vedo nemmeno toccata dagli avvenimenti di questi ultimi anni della storia, poiché la sua grandezza è tutta spirituale, e s’innalza al di sopra di tutte le miserie nostre ed altrui. È per questa spirituale grandezza che io sono morto. E a chi si mostri sfiduciato davanti alla miseria della Patria, io dirò che mai in tutta la sua storia, essa ha potuto contare un numero così grande di martiri che la glorificano, come in questi anni che possono sembrare sconfortanti e non lo sono. In questa spirituale grandezza della Patria, a cui io vi supplico di credere, voi troverete specchiati e riassunti tutti gli affetti che mi hanno fatto morire per lei”.
Si tratta di un richiamo alla «grandezza della Patria», una grandezza spirituale che non può essere toccata da nulla, perché essa «s’innalza al di sopra di tutte le miserie nostre ed altrui». Il tema ritorna significativamente poco dopo in un testo poetico in friulano sulla libertà dell’Italia:
La libertat, l’Italia/ e quissà diu cual distin disperat/ a ti voevin/ dopu tant vivut e patit/ ta qistu silensiu./ Cuant qe i traditours ta li Baitis/ A bagnavín di sanc zenerous la neif,/ «Sçampa — a ti an dita — no sta tornà lassù»./ I ti podevis salvati,/ ma tu/ i no ti às lassat bessoi/ i tu cumpains a muri./ «Sçampa, torna indavour»./ I ti podevis salvati/ ma tu/ i ti sos tornat lassù,/ çaminant./ To mari, to pari, to fradi,/ lontans/ cun dut il to passat e la to vita infinida/, in qel dì a non savevin/ qe alc di pì grant di lour/ al ti clamava,/ cu’l to cour inossent.
[La libertà, l’Italia e dio sa quale destino disperato ti volevano dopo tanto vivere e patire in questo silenzio. Quando i traditori nelle Baite bagnavano di sangue generoso la neve, «Scappa», ti hanno detto, «non tornare lassù». Potevi salvarti, ma tu non hai lasciato morire soli i tuoi compagni. «Scappa, torna indietro». Potevi salvarti, ma tu sei tornato lassù, camminando. Tua madre, tuo padre, tuo fratello, lontani con tutto il tuo passato e la tua vita infinita, quel giorno non sapevano che qualcosa di grande più di loro ti chiamava, con il tuo cuore innocente][7]
Nella poesia, che fa parte della piccola raccolta “Còrus in muart di Guido”, uscita nello «Stroligut di cà da l’Aga» dell’agosto 1945, risultano decisive alcune ripetizioni, come sçampa e lassù, che indicano le due opzioni possibili per Guido: la fuga o il ritorno dai compagni in pericolo di vita, rafforzate dall’avversativa introdotta dalla congiunzione e dal pronome ma tu, anch’essi ripetuti. Guido ha seguito il proprio pensiero, non ha obbedito all’istinto di sopravvivenza, al meccanismo che imporrebbe all’uomo la fuga.
Ma non serve «maledire il destino», «Sigà il distin», come Pasolini scrive nel primo verso della raccolta[8], bisogna pensare la differenza anche se questa è troppo grande: «A è massa granda qista diferensa/ par podei mai pensala»[9]. È la differenza tra quello che rimane di un uomo e il suo corpo che non c’è:
Eco, qistu Mond/ par te a no ‘l è,/ e par nu al è./ E tu par te i no ti sos,/ e par nu sì./ A è massa granda qista diferensa/ ìpar podei mai pensala: / e nu i restan coma l’erba tal prat/ e li nulis tal seil./ O fradi, tu i ti restis, par nu:/ s’i no podin toça pì il to cuarp,/ se i no savino di te?/ Il to martiriu, il to amour, il to snc, oh Crist.
[Ecco, questo mondo non è per te, è per noi. E tu per te non sei, e per noi sì. È troppo grande questa differenza per poter mai pensarla: e noi restiamo come l’erba nel prato e le nuvole nel cielo. O fratello, tu resti, per noi: se non possiamo toccare più il tuo corpo, che cosa sappiamo di te? Il tuo martirio, il tuo amore, il tuo sangue, oh Cristo.][10]
Se in questo testo c’è una prima rassomiglianza tra Guido e Cristo, fra il martirio-testimonianza di Guido con quello di Cristo, in un altro testo Pier Paolo ripercorre Incarnazione, Passione, Morte e Resurrezione, con una ancor più esplicita identificazione di Guido con Gesù, che per volontà divina ha lasciato «chel dols vivi/ cun lui stes e so mari/ e so fradi tal mont», «quel dolce vivere con sé stesso, con sua madre e con suo fratello nel mondo». Per l’identificazione con Guido, è come se Pasolini dicesse che anche a Cristo è piaciuto incarnarsi e vivere tra i suoi fratelli uomini, secondo la buona teologia cattolica[11]: Ma ora il suo corpo non c’è più:
Me fradi muart al ten/ na part di me cun lui/ ta chel trist Infinit/ ch’al mi scrissia ogni dì./ Un sofli al mi divit/ da lui, e un scur misteri;/ quan ch’a brilin li stelis,/ mi lu figuro dongia/.I sint il so respir/ tai me ciavej, e il nuja,/ una lus infinida/ a è dut un cul so voli.
[Mio fratello morto tiene una parte di me con lui in quel triste infinito che mi angoscia ogni giorno. Un soffio mi divide da lui, e un oscuro mistero; quando brillano le stelle, me lo immagino accanto. Sento il suo respiro nei miei capelli, e il nulla, una luce infinita è tutt’uno con il suo occhio.][12]
In occasione del primo anniversario dell’eccidio di Porzûs, Pasolini compone un’altra poesia, In memoria del fratello Guido “Ermes”, una sorta di poemetto, sul modello dell’amato Pascoli[13]. Sono sedici strofe, di varia lunghezza, la più intensa delle quali è una specie di visione di quanto è accaduto
XIII
Porzûs, lacrima dai crinali,/ scuoti i rari rami,/ offusca il bagliore della neve,/ un anno fa eri uguale,/ ora noi ti calpestiamo,/ e tu non senti che il cielo./ Nell’anniversario non sei/ che neve e silenzio./ Don Candido mormora, pregando,/ duemila uomini tacciono/ nel candore mortale dei tuoi monti,/ indifferente dolcezza./ (Ecco sulla porta Enea,/ Bolla, i mitra appoggiati …./ Mi sporgo/ e guardo la china/ per dove ora é un anno/ Guido veniva quassù … )/ Guido, non salire./ Non ricordi più il tuo nome?/ Ermes, ritorna indietro,/ davanti c’è Porzûs contro il cielo,/ ma voltati, e alle tue spalle/ vedrai la pianura tiepida di luci,/ tua madre lieta, i tuoi libri …/ Ermes ahi non salire/ spezza i passi che ti portano in alto,/ a Musi é la via del ritorno,/ a Porzûs non c’è che azzurro.
Ritorna l’invito al fratello a non salire, a guardare verso la «pianura tiepida di luci, / tua madre lieta, i tuoi libri». La pianura, la madre e i libri che Pier Paolo ha preferito, rispetto al sacrificio del fratello. Poco dopo, come conseguenza della tragedia, c’è una sorta di dichiarazione di chiamata di correo fatta a Dio, a Cristo, una sorta di chiamata fatta al Dio di Gesù a dichiararsi anch’esso imputabile nella tragica storia accaduta a Guido: «Tu non puoi essere, / tu che ci hai dato la neve/ e la pioggia e la luce/ e i venti e le nubi». Ritornano di nuovo le parole che troviamo nei Turcs tal Friûl, subito dopo il passo citato in precedenza:
Ti vevis razòn, fradi, di blestemà il Signour, di sacramentà la Verzin! Cui sa dulà q’a son Lour, se als, se lontans, se beàs! E nualtris cà a muri, e preàju ença! A no è justa qe jo i vedi di muri propit vuei che tal cuarp di me fradi muart i mi soi sovignùt da la me zo-ventùt; a no è justa, no, qe dut a vedi di brusasi e sparì ta qistu puor paìs cristiàn. Ti vevis razòn, fradi, di blestemà il Signour, di sacramentà la Verzin!
[Avevi ragione, fratello, di bestemmiare il Signore, di sacramentare la Vergine! Chissà dove sono Loro, in alto, lontani, beati! E noi qua a morire, e pregarli anche. Non è giusto che io debba morire proprio oggi che sul corpo di mio fratello morto mi sono ricordato della mia gioventù; non è giusto, no, che tutto debba bruciare e sparire in questo povero paese cristiano. Avevi ragione, fratello, di bestemmiare il Signore, di sacramentare la Vergine!].
Non ci si deve chiedere qui, accostando questo testo con ciò che si dice nel film “Teorema” («Io sono pieno di una domanda a cui non so rispondere. / […] È un urlo fatto per invocare l’attenzione di qualcuno o il suo aiuto; ma anche, forse, per bestemmiarlo»[14]), se questo bestemmiare non è, ancora una volta, una chiamata fatta a Dio di dichiararsi imputabile nella storia?
C’è anche un altro indizio che lega la poesia: In memoria del fratello Guido “Ermes” ai Turcs tal Friûl, ed è la parola inganno, che troviamo nei versi iniziali di (Perché ci hai tutti ingannati/ perché fosti fanciullo, / se invece non ci fu giorno/ in cui il tuo martirio non fosse presente?), ma che è più volte ripetuta da Meni (Io i no crot pi ta qel Diu. Al ni ha ingianàs, [Io non credo più in quel Dio, ci ha ingannati]); e dallo stesso parroco del paese (E ades i si ‘necuarzin q’al è stat dut un ingiàn s’al veva di finila cussì [E adesso ci accorgiamo che è stato tutto un inganno se doveva finire così]). È questa, ancora una volta, non una dichiarazione di scetticismo religioso circa un Dio indefinito, appunto, religioso, ma il riconoscimento che la imputabilità di Dio nella storia già non può essere verificata. Ci sembra di poter dire che Pasolini non ha qui perso fiducia in un Dio generico, ma non ha trovato corrispondenza storica, ecclesiale, né nei cristiani, dello stesso farsi imputabile da parte di Dio nella storia così come era avvenuto in Cristo. C’è qui la enorme solitudine cristiana di Pasolini, quella di essere un “feto adulto” e non trovare un volto amico, fratello come Guido, per mezzo del quale verificare la imputabilità di Dio, di Cristo. Ricordiamo qui i suoi versi:
«E io, feto adulto, mi aggiro / più moderno di ogni moderno / a cercare fratelli che non sono più»[15].
«Il sangue di Cristo si è fatto ceralacca, / la ceralacca polvere, la polvere omissis. / Non una parola, o un accenno, o uno sguardo, / ah, uno sguardo, sono cristiani, per chi / ha l’abitudine, poco civile, certo, e un po’ angosciosa, / di richiedere questo a uno che parla, a uno che guarda»[16]
«Manca sempre qualcosa, c’è un vuoto in ogni mio intuire. Ed è volgare, questo non essere completo, è volgare, mai fui così volgare come in questa ansia, questo “non avere Cristo”, una faccia che sia strumento di un lavoro non tutto perduto nel puro intuire in solitudine»[17].
Quella di Pasolini è quindi una solitudine propriamente cristiana che è anticlericale in quanto è propriamente ecclesiale, desiderio, forse nostalgia, di una trasformazione metafisica – che si compie nell’amicizia e communio cristiana-ecclesiale-contadina, quella dei vecchi parroci di campagna – del vissuto quotidiano che già non è comandato né causato da leggi vegetative-naturali, come testimoniano queste parole del 1950:
«Ma lo sa lei che nessuno si sognerebbe mai di pensare ad altro che non sia la pura vita vegetativa, il puro commercio vitale … se non ci fosse un prete … Egli ammassa nella sua persona un’infinità di possibilità di pensare … […] il pensiero dell’infinito … o della morte … questo accade unicamente in chiesa … Ah come si trasforma tutta questa gente, quando entra in chiesa … è un miracolo […] e … di punto in bianco entra in contatto con Dio»[18]
Certo è che il sacrificio di Guido ha determinato in Pier Paolo una lacerazione profonda, «una perdita di armonia di sé e tra sé e la realtà», come è stato scritto[19]. La poesia In memoria del fratello Guido “Ermes” si conclude con un grido: «Diciamo: amore, / diciamo forte: amore, / che ne suonino i monti/ e le valli, / e tuoni alle orecchie: amore! / C’é un fanciullo, un candido morto, / che vive in quel grido».
E questo è certamente quello che lo scrittore ha cercato nella sua vita, la sue quete senza fine, fino al sacrificio finale, in cui si è identificato più che mai con il suo Guido, con «na muart di pur amòur»[20].Di che amore si tratta? Certo dell’amore dell’uomo per gli uomini suoi fratelli. Ma non si può vedere in questo amore di Guido ritornato dai compagni in pericolo di vita, nel suo martirio – «Il tuo martirio, il tuo amore, il tuo sangue, oh Cristo» – (martirio che etimologicamente vuol dire testimonianza) lo struggente desiderio pasoliniano di un martirio-testimonianza rintracciabile e verificabile nel volto di un fratello cristiano se Cristo davvero vuole confermarsi davanti ai suoi occhi come il «testis fidelis, il testimone fedele»?
Non si dovrà ammettere che le acque sotterranee del Tagliamento cristano di Pasolini, emerse nell’occasione della morte del fratello Guido «martire-Cristo», hanno solo trovato un Cristo di ceralacca in cristiani che si sono dissolti in polvere dimentica di sé («la polvere omissis»), anzi già marciti? «Dove il Cristianesimo / non rinasce, marcisce»[21].
Roberto Castenetto, Pier Paolo Pasolini e la morte del fratello Guido «martire-Cristo», in Roberto Volpetti I Pasolini. Guido e Piee Paolo. Resistenza e libertà, Associazione Partigiani Osoppo, Udine 2023.
Un ringraziamento particolare va ad Agostino Molteni per alcuni suggerimenti testuali.
Presentazione del libro Roberto Volpetti I Pasolini. Guido e Piee Paolo. Resistenza e libertà, Associazione Partigiani Osoppo, Udine 2023.
Sabato 11 novembre 2023, Auditorium del Centro Culturale delle Grazie, Udine, Via Pracchiuso, 21
[1] Riportato in P.P. Pasolini, I Turcs tal Friûl; testo e traduzione a cura di G. Chiarcossi, Quodlibet 2019.
[2] A. Zannini, L’altro Pasolini. Guido, Pier Paolo, Porzûs e i turchi, Marsilio 2022, pp. 121-148; l’ipotesi che il testo possa essere stato scritto nel maggio 1945 fu formulata per la prima volta da Giuseppe Zigaina (1989) e poi ripresa da Rienzo Pellegrini (1992).
[3] G. Zigaina, Pasolini e la morte. Mito, alchimia e semantica del nulla lucente, Marsilio Editori 1987.
[4] Ibidem, p. 34.
[5] Ibidem, pp. 31-34. Nelle testimonianze raccolte da G. Nosella, Casarsa. Un uomo, Campanotto Editore 2017, ci sono vari riferimenti al pianto di Susanna: secondo la testimonianza raccolta da Bruno Sclippa, Susanna e Pier Paolo seppero dell’eccidio di Porzûs ai primi di marzo del 1945; «Barba Bortul ricordò, ancora, la reazione della madre di Pasolini alla notizia della morte del figlio Guidalberto. In quella prima di numerose notti la madre si mise a urlare chiamando il figlio», ivi, p. 63; e aggiunge Nosella che «Zio Bortul, tuttavia, non aveva saputo dire a Bruno con sicurezza quanto tempo dopo la morte del figlio la madre aveva ricevuto notizia della tragedia. A parere dell’avo forse nei giorni immediatamente successivi alla disgrazia, poiché si era ai primi di marzo del 1945; in verità, lo zio, già prima aveva sentito urlare la madre Susanna per la morte del figlio tutta la notte», ivi, p. secondo un altro testimone quando giunse la notizia faceva freddo, ivi, p. 43; secondo Ovidio Colussi pochi giorni dopo Porzùs, ibidem, p. 68.
[6] P. Puppa, Per una drammaturgia al plurale, in Pasolini e il teatro, a cura di S. Casi, A. Felice e G. Guccini, Marsilio, Centro Studi Pier Paolo Pasolini Casarsa della Delizia 2012, p. 73. Anche la Cronologia, inserita nella nuova edizione delle Lettere, scritte da P.P. Pasolini, si dice che nel 1945, «dal 14 al 22 maggio Pier Paolo compose I Turcs tal Friùl», ma evidentemente la notizia è derivata dall’annotazione presente in uno dei manoscritti in cui è riportato il testo, che tuttavia non ha l’indicazione dell’anno. Va anche rilevato che c’è una significativa coincidenza tra le date delle lettere ideali scritte da Pier Paolo al fratello (12,15, 16, 17, 18 maggio 1945) e le date in cui dice di avere composto il testo teatrale (dal 14 al 22 maggio).
[7] P.P. Pasolini, Tutte le poesie, Tomo I, Mondadori 2015, p. 327.
[8] Ibidem, p. 326.
[9] Ibidem, p. 328.
[10] Ivi.
[11] «Dio è tale da poter farsi uomo. Egli è tale da voler diventare uomo. Queste due frasi dicono quanto sia vicino l’essere uomo a Dio, se Dio può essere uomo, se egli parla, pensa ed ama come uomo»: J. Ratzinger, Dogma e predicazione, Queriniana, Brescia 1974, p. 94, (corsivi nostri); vedi anche: A. Molteni, Il pensiero di Cristo. La «logica» dell’incarnazione redentrice secondo Charles Péguy, Cantagalli 2021.
[12] Ibidem, pp. 331-332.
[13] Una prima versione della poesia, con il titolo La morte di Guido, si trova in “Libertà” del 10 febbraio 1946. Successivamente le viene dato il titolo La passione del ’45. Una parte della stessa si trova in Antologia poetica della Resistenza italiana, a cura di E. F. Accrocca e V. Volpini, San Giovanni Valdarno 1955. Viene poi pubblicata in un opuscolo della Osoppo e da G. Ellero, Ricordo del partigiano Ermes ucciso a Porzûs, in Ciasarsa. San Zuan Vilasil Versuta, a cura di G. Ellero, Società Filologica Friulana, Udine 1995, p. 446.
[14] P.P. Pasolini, Teorema, Garzanti 199, p. 198.
[15] P.P. Pasolini, Poesia in forma di rosa, in Tutte le poesie, cit. p. 1099.
[16] Ibidem, Pietro II, p. 1154.
[17] Ibidem, L’alba meridionale VI, p. 1235.
[18] P. P. Pasolini, Pagine su Dina e Olga (1950), citato da A. Felice, Alla ricerca del padre perduto. Dinamiche di famiglia spezzata ne », in Pasolini e il teatro, cit., p. 55.
[19] Ivi, p. 45.
[20] P.P. Pasolini, “Dansa di Narcis (III)”, in Tutte le poesie, cit. p. 69.
[21] P.P. Pasolini, Pietro II, cit. p. 1154. Vedi anche P.P. Pasolini, Poeta delle Ceneri, a cura di G. M. Villalta, Garzanti, 2023, dove all’inizio del poemetto autobiografico scritto nel 1966, Pasolini scrive: «Piango ancora, ogni volta che ci penso, / su mio fratello Guido, / un partigiano ucciso da altri partigiani, comunisti / (Era del Partito d’Azione, ma su mio consiglio: / lui, aveva cominciato la Resistenza come comunista) /, sui monti, maledetti, di un confine / disboscato con piccoli colli grigi e sconsolate prealpi», p. 23; che la tragedia della morte di Guido abbia lasciato un segno indelebile nel poeta si capisce anche in questi versi successivi, in cui Pier Paolo sembra identificarsi con Guido, in una nuova lotta: «sì, anche il comunista è un borghese. / Questa è ormai la forma razziale dell’umanità. / Forse impegnarsi contro tutto questo / non vuol dire scrivere, da impegnati, / direi, / ma vivere», p. 46.
Rassegna Ascoltare, leggere, crescere – Cartolina 15×10 cm (1)
LA PÈRE-VERSIONE DI EDUCARE
Agostino Molteni
All’inizio di un nuovo anno scolastico e universitario, come è possibile un nuovo inizio che non si sottometta ai cliché ripetuti e consueti di un’educazione che consisterebbe solo in mere strategie pedagogiche considerate, in modo presupposto e fideistico, come “scientifiche” in quanto elaborate a priori da idiots savants? Perché è un dato di fatto, con il quale siamo d’accordo, quanto osservava Freud: «La considerazione più superficiale mostra che finora la pedagogia ha svolto molto male il suo compito e ha causato gravi danni agli alunni». D’altronde, la diagnosi di Tocqueville, valida non solo per il Nord America ma in generale, ci sembra ancora drammaticamente attuale: «I nordamericani non possono dedicarsi allo sviluppo generale del pensiero se non nei primi anni di vita: a quindici anni entrano in una carriera. (…) Se proseguono oltre, si stanno solo dirigendo verso una materia specializzata e redditizia, si studia una scienza come si facesse una professione, e non si riconoscono che le applicazioni di cui viene riconosciuta l’utilità attuale». È la produzione di massa di idiots savants super specializzati.
Allora da dove cominciare? Innanzitutto interroghiamoci su ció che ha detto Péguy in un articolo in occasione del ritorno a scuola: «La crisi dell’insegnamento non è una crisi dell’insegnamento perché non c’è mai una crisi dell’insegnamento; é una crisi di vita. La crisi dell’educazione denuncia, annuncia una crisi della vita. Oppure, se si vuole, le crisi della vita sociale si aggravano e culminano in crisi educative che sembrano parziali, ma sono totali. Quando una società non può insegnare, è perché ha paura di insegnare a se stessa, è perché non ama se stessa, non si stima. Come insegnare ai bambini e ai giovani quando tutti mentono? Quando tutti, partiti politici, insegnanti, mentono? Quando favoritismi e carrierismi invadono tutti? Quando l’intera società è marcia di bugie? Possano la scienza, l’arte e la filosofia liberarsi dei politici. Non essendoci più crisi della vita, non ci sarà più crisi dell’insegnamento».
È chiaro che qui si tratta soprattutto del compito degli adulti di non mentire. È l’attualità pressante dell’ottavo comandamento: non mentire, non dire falsa testimonianza. Mentire significa «falsificare», come dice Péguy, l’atto, l’evento del rapporto di arricchimento reciproco e composto tra soggetti: è la père-version (come la chiamava Lacan), la perversione operata da un “padre” che finisce per volere imporre il suo discours du maître (ancora Lacan), il suo “discorso del padrone”, educativo, che finisce per produrre solo schiavi. Non sará questo il frutto di una cattiva teologia? Infatti, neanche a Dio, cioé al Padre, interessano degli schiavi, come diceva Péguy: «Dio dice: una beatitudine da schiavi, una salvezza da schiavi, perché volete che mi interessi? A chi piace essere amato dagli schiavi?”».
In che consiste allora la père-version scolastica e universitaria? E’ una logica debitrice, da un lato, a quella che Péguy chiamava la sottomissione “alla formazione dello Stato”; e, dall’altro, la sottomissione a sistemi pedagogici concepiti – in modo presupposto e fideista – como scientifici in quanto inventati ex cathedra. Esto vale anche per quei cristiani che pensano essere «chierici» della ragione, dell’educazione della ragione, esperti – ex cathedra – del vincolo tra senso religioso e ragione nell’educazione: «Non esiste un chierico della ragione» (Péguy).
Allora, di cosa si tratta in questo nuovo ritorno a classe? Il rischio è quello di educare, cioè di pensare che si tratta di educare, di essere educatori e di essere educati. In questo senso, il tentativo di produrre una buona educazione finisce per produrre solo una cattiva educazione in virtú di quella teoria nefasta che chiamiamo «L’Educazione» che si basa su un principio totalmente equivocado, quello si essere complemento a una penuria. Errore diffusissimo anche tra i cristiani che pretendono partire dalla penuria che rappresenta il senso religioso per vincolarlo alla penuria che sarebbe quella di una ragione che abbisognerebbe di essere educata e completata religiosamente con un Dio generico, senso della vita e di tutto il reale, dalla matematica alla letteratura, dalla fisica alla storia e geografia, ecc. Péguy è stato abbastanza chiaro: «Mandiamo i bambini a scuola, dice Dio. Penso per fargli dimenticare quello che sanno. Crediamo che i bambini non sappiano nulla e che gli adulti [gli educatori] sappiano qualcosa. Ebbene, vi dico che è il contrario. Sono gli adulti che non sanno nulla e i bambini che sanno tutto».
Si tratta quindi, in questo ritorno a scuola, di ritrovare ciò che Péguy vedeva nei suoi insegnanti d’infanzia, una «fedeltà paterna lunga, paziente e dolce», poiché «essere insegnante e alunno costituisce un legame sacro, molto simile a quel legame che, da filiale, diventa paterno». Per questo ha detto che «dovevo andare alla Sorbona per sapere, per scoprire, con ingenuo stupore, cosa significa essere un insegnante che nutre risentimento verso i propri studenti».
Cosa augurarsi per questo nuovo anno scolastico e universitario? Che si compia finalmente la relazione, la partnership, la società «padre-figlio», non quella educatore-studente. Anche su questo punto Péguy è stato chiaro: «Sebbene si abbia il diritto di discendere da un altro pensiero, bisogna discendere lungo le vie naturali della filiazione e non lungo quelle scolastiche dell’educazione (élevage)». Perché «padre» significa produzione di eredità (il pensiero ebraico-biblico lo afferma chiaramente così come lo stesso Diritto) e «figlio» significa il lavoro quotidiano per portare a compimento questa eredità. In questo senso, «padre» non è un «complemento» a una penuria, a un umano che bisogna accendere, ma piuttosto un supplemento di partnership, supplemento di una co-operazione e collaborazione affidabile (=che non mente) affinché il «figlio» erediti la terra intera» (Matteo 5,5). In questo senso san Tommaso d’Aquino, nella sua definizione dell’atto di insegnare, parla di promotio: pro-muovere il pensiero dell’altro, del «figlio», della sua «competenza di pensiero» (Péguy), affinché si attui, allo stesso tempo, quella che Tommaso chiama la traductio, l’introduzione alla realtà intera intesa come eredità legittima che il «figlio-erede» deve lavorare per fruttificarla. Questa, in fondo, è la lezione del primo capitolo del libro della Genesi in cui si racconta che Dio, cioè il Padre, ha generato l’uomo come legittimo erede della realtà intera affinché potesse lavorarla come erede legittimo: «Vi ho ereditato tutto» (Genesi 1, 29). Si tratta perció di produrre una ragione filiale, quella di un «figlio», ricordando sempre che «la ragione non ammette rivalitá, ma solo collaborazione e cooperazione. Ogni idea di ricompensa o di castigo, di sanzioni, anche se fossero eleganti, spirituali, religiose sono estranee alla ragione».
Gli stessi cristiani dovrebbero saperlo abbastanza bene: si tratta di essere produttori di eredità, non educatori, perché se l’uomo è a immagine e somiglianza della Trinità, Gesù stesso è il Figlio di suo Padre, è l’erede , non il suo allievo: «Quando i contadini videro il figlio, dissero tra loro: Questi è l’erede; venite, uccidiamolo e prendiamo possesso della sua eredità» (Matteo 21,38). Pertanto, per mori e cristiani, il rischio di educare è propriamente quello del “parricidio”, la père-versione del «padre» che consiste in diventare educatori, «intellettuali della felicità» (Péguy), il che implica la perversione del «figlio» trasformato in studente-schiavo di un sistema di felicità intellettuale-erudito. Se Péguy diceva che la crisi dell’insegnamento è crisi della vita, questa é propriamente la crisi della père-version, la crisi del «padre» che cerca di «esercitare un governo del pensiero, un dominio temporale sul pensiero. Perché volete avere un sistema educativo e imporlo?» (Péguy).
Ciò che è in gioco è la libertà del pensiero sia del «padre» che del «figlio», la libertà del pensiero composta tra «padre» e «figlio»”. Così dice Péguy: «Dio dice: sono tentato di mettere la mia mano sotto il loro ventre / di tenerli nella mia mano larga, / come un padre che insegna al figlio a nuotare / nella corrente del fiume / e che è diviso tra due sentimenti. / Ebbene, da un lato, se lo tieni sempre e se lo tieni troppo / il bambino acquisirà sicurezza e non imparerà mai a nuotare. / Ma d’altra parte, se non lo prendi in braccio al momento giusto, / quel bambino berrà male. / Se lo tengo troppo a lungo, non è più libero / e se non lo tengo abbastanza a lungo, cade. / Se lo tengo troppo espongo la sua libertà / Se non lo tengo abbastanza espongo la sua salvezza: / due beni sotto un certo punto di vista quasi ugualmente preziosi. / Ebbene, quella salvezza ha un prezzo infinito. / Ma che salvezza sarebbe se non fosse gratuita?»
Insomma, cosa dovrebbe accadere in questo nuovo ritorno in classe? Ascoltiamo ancora Péguy: «Ci sono insegnanti che godono del successo dei loro alunni e dei loro figli: queste persone sono le uniche degne dell’autorità di magistero, o di quel bel nome di paternità. Ci sono altri che vogliono rendere gli studenti schiavi e subordinati, per creare seguaci”. Seguaci anche di un sistema educativo religioso-razionale: «Attrarre l’umanità verso la sua liberazione per sprofondarla in un sistema è commettere in nome della ragione la stessa malversazione che la Chiesa ha commesso in nome della fede. È vendere all’umanità ciò che dobbiamo darle. È vendere un oggetto che non dobbiamo permettere che cada nel commercio economico» (Péguy). Cristo non ha forse cacciato dal Tempio di suo Padre i mercanti dell’educazione religiosa-razionale?
(Gentilmente concesso da Agostino Molteni, Università Cattolica di Concepciòn, Cile)