Delminio e il Pordenone

“Giovanni Antonio, detto con varietà di cognomi ora Regillo, ora Licinio, ora Sacchiense sovranominato il Pordenon, fu pittore eccellentissimo e lodato altamente dalla sua opera e dalla pubblica fama. Fu egli figlio di padre Bresciano, il quale nel suo ultimo testamento del 1527 si chiama Angelus de Lodesanis de Corticellis Brixiensis. Il Pordenon fu emulo di Tiziano, al quale alcuno ha imputato la morte del Pordenon per veleno. Fu sepolto in Ferrara l’anno 1539, quando stava dipingendo nel Palazzo dei duchi, ora dei marchesi Villa”.
Così Ernesto Mottense, nobile pordenonese, cultore delle antichità cittadine e a lungo custode in Duomo dell’Archivio della Comunità, in un suo manoscritto del 1752 sugli Uomini illustri di Pordenone, custodito nel Fondo Montereale-Mantica dell’Archivio di Stato di Pordenone, riassume la vita di Giovanni Antonio de’ Sacchis. Ma è un’annotazione a margine del testo che riserva inaspettati riferimenti letterari: “Vedi circa il celebre Pordenone ciò che di lui scrivono Giulio Camillo Delminio nella celebre sua orazione Pro suo de eloquentia theatro, stampato in Venezia 1587 et altresì Bernardino Partenio nell’orazione Pro lingua latina, 1545”.
Leggiamo allora nel testo dell’umanista portogruarese Giulio Camillo Delminio, scritto nel 1534 in Francia e poi pubblicato a Venezia nel 1587, che un esperto di pittura certamente presterebbe attenzione alle “molte opere monocromatiche di Michelangelo; o a molte immagini di Pordenone, le quali si vedono uscire dalla luce, che egli suole mirabilmente sfumare con il pennello; o penetrare con lo sguardo nella raffinatezza dei colori dell’urbinate Raffaello; e farebbe vedere cose che io non avrei neppure potuto sospettare”.
Delminio, all’interno del ragionamento che sta sviluppando a favore della sua idea di memoria culturale, quasi anticipatrice di quella del computer, accomuna Michelangelo, Raffaello e Pordenone, dedicando a quest’ultimo una frase che coglie la caratteristica fondamentale delle sua opera, ovvero la sua capacità di sfumare le figure, rendendole quasi vive, come si è visto nella recente mostra sul “Rinascimento di Pordenone” o come è evidente nel fregio dello Studiolo, scoperto da Giancarlo Magri nel 1989 e riproposto dal figlio Alberto e da Stefano Ciol nelle immagini del recente volume edito dalla libreria Al Segno.
L’importanza del passo di Delminio, acutamente individuato da Lionello Puppi nel 1984 (Pordenone, Atti convegno internazionale di Studi, 1985), sta nel fatto che viene formulato ben prima che Vasari pubblichi Le Vite de’ più eccellenti architetti, pittori e scultori italiani, nel 1550, dove troverà un posto anche Giovanni Antonio Sacchiense. Basterebbe questo dunque per far capire che cinque secoli fa era normale porre il Sacchiense alla stregua dei due grandi del Rinascimento. Così anche l’umanista di Spilimbergo Bernardino Partenio, il quale scrive: “Le arti un tempo fiorite in Grecia e in Italia, le vediamo nuovamente rinate, a giudizio unanime di tanti, in Michelangelo, in Sansovino e in colui che per arte mai fu superato, se non nell’invidia, Giovanni Antonio Licinio Naonense intendo dire; infatti, non avendo avuto la pittura alcuna eleganza e proporzione tra le parti nei tempi passati, ed essendo le figure dipinte più vere delle figure umane imitate, in esse cogliamo realtà mirabili e vive, immagini che quasi ci parlano, nelle quali non tanto il movimento e l’azione, quanto il pensiero e il sentimento con stupore ammiriamo, tanto che se le guardiamo più da vicino, pensiamo che non siano state dipinte con i colori ma con il sangue”.
Roberto Castenetto
Pubblicato sul settimanale “Il Popolo” del