Sul fregio dello Studiolo del Pordenone
«Menippo: Strana pena è codesta, o Tantalo. Ma dimmi, che bisogno hai tu di bere? Tu non hai corpo, che sta sepolto in Lidia; quello poteva aver fame e sete: saresti tu uno spirito affamato e assetato? Tantalo: È in questo che sta il tormento, che lo spirito ha sete come fosse corpo».
Giovanni Antonio Sacchiense conosceva il dialogo di Luciano di Samosata (120-192 circa) da cui sono tratte queste battute finali? Forse lo aveva letto insieme al coetaneo Girolamo Rorario (1485-1556), che nel 1513 inizierà a scrivere i suoi Dialoghi, sul modello dell’autore greco. E forse lo aveva in mente, quando nel 1520, dipinse il Tantalo dello Studiolo a Pordenone.
È sempre difficile individuare eventuali fonti letterarie di opere d’arte, ma nel caso di Pordenone si possono formulare delle ipotesi ragionevoli. Nel famoso Fregio della Casa Sacchiense, ci sono altre due scene che trovano dei riscontri, oltre che nelle opere di Omero, in Giulio Camillo Delminio (1480-1544), anch’egli coetaneo e amico del Pordenone, che prima del 1520, durante gli anni del suo insegnamento a San Vito e a Udine, incominciò ad elaborare il suo “Teatro della sapienza”, poi pubblicato nel 1550, con il titolo L’idea del theatro.
Il riscontro più importante si ha nell’immagine di Ercole che uccide il leone di Nemea, dipinto da Pordenone sopra il caminetto dello Studiolo. La prova dell’eroe greco è sempre stata interpretata, dalla tarda antichità al medioevo, come allegoria di Cristo che vince il demonio e la morte, perché, come scrive Rufino Turranio (340-410), nelle Scritture «il leone è detto diavolo» (De Benedictionibus Patriarcarum). Ebbene, Delminio interpreta così il mito: «Il leone ucciso da Hercole. Alla dichiaration di questa fabula ci fa bisogno intendere che quel luogo della scrittura: “Israel, si me audieris, non adorabis Deos alienos, neque erit in te Deus recens” ci fa intender che possiamo far due gravissimi peccati, l’uno di non adorar Dio vero et solo, l’altro di cometter maggiore idolatria, che non faceva l’antica simplicità. Impercioché quella adorava dei fuori di sé, ma i più di noi adoriamo dei che ci facciamo dentro di noi … Et per dir brieve, tutti habbiamo dentro un fiero et superbo leone, che significa la nostra malvagia et indomita ambitione. Et è il recente dio, che ci habbiamo dentro. Se adunque il nostro spirito diverrà un Hercole fortissimo, ucciderà questo leone, il quale ucciso, ne seguirà la humiltà, nella qual sola possiamo piacere a Dio, divenendo pargoli et poveri di spirito”.
Ma è nell’ultima scena dello Studiolo, quella di Giunone sospesa in cielo, che Pordenone fa emergere la sua capacità di rielaborazione autonoma. Forse aveva avuto modo di vedere, andando a Roma nel 1519, la bella Giunone dipinta poco prima dal Correggio nel monastero benedettino di San Paolo a Parma, anche se quella era una Giunone punita da Zeus. Qui invece abbiamo una Giunone, con le stesse fattezze robuste di Tantalo, tirata su dal coniuge verso il sole, come notato da Giancarlo Magri, con una catena d’oro. E guarda caso, sempre il Delminio, pur vedendo in Giunone sospesa una punizione, scriverà nella sua Idea di theatro che «la catena d’oro significherà andare al sole, pigliare il sole, stendere al sole». Catena d’oro che, come osserva Lina Bolzoni, studiosa e curatrice delle opere delminiane, «è citata anche nella Lettera del rivolgimento dell’huomo a Dio, come immagine del libero consenso all’azione divina».
Roberto Castenetto
Pubblicato sul settimanale “Il Popolo” del 24.05.2020